Storia del Cognome

INFO ARTICOLO

martedì 2 Ottobre 2012

SEGUICI

CONTATTI

Il sommo Aristotele a ragione definiva l’uomo “un animale sociale”. In questa dichiarazione è già incapsulato il seme della nascita della famiglia come aggregato numeroso di persone da cui discende l’esigenza di identificare i vari componenti del gruppo che l’istinto di socializzazione porta a formare. L’identificativo sarà tanto più semplice quanto più limitata sarà la dimensione del gruppo e con la crescita di questo crescerà anche il bisogno di ricorrere ad identificativi più diversificati.


Se questo è vero per i popoli europei, lo è un po’ meno per i Cinesi, presso i quali esistono solo pochissimi identificativi cognominali, pur essendo il cinese il popolo più numeroso del pianeta, superando di gran lunga il miliardo di abitanti, il maggior numero dei quali porta un cognome composto da un solo ideogramma o suono parasillabico; attualmente in Cina, ci sono solamente circa 3000 cognomi di grossa diffusione e solo 200 cognomi doppi (4 i cognomi più usati, Zhang, Wang, Li e Zhao, di cui il primo, portato da oltre 100 milioni di persone, è il più diffuso).

Ben prima del cognome, compare però sulla Terra il nome. Esso può definirsi l’identificativo che differenzia l’uno dall’altro, ossia un attributo che caratterizzi la persona e che possa permettere ad ogni componente del gruppo di capire a chi ci si sta riferendo. Possiamo dire pertanto che il nome, con caratteristiche simili all’odierno soprannome, nasce insieme con l’uomo, quando da animale questi si evolve in “homo”, cioè quando l’organizzazione del gruppo impone l’identificazione dei vari componenti come elementi distinti. La prima forma di nome prende ispirazione spontanea dalla natura, sia per la carica emotiva o attrattiva che l’elemento naturale comporta, sia per una qualche affinità, a volte augurata, a volte riscontrata con essa (i nomi Volpe, Lupo, Orso, Cane, Nuvola, Montagna, sono solo esempi di questo tipo di identificativo).

In Età Neolitica, con la nascita del culto per il soprannaturale, accanto a questo bisogno di identificare le persone, si rendono disponibili anche i nomi o gli attributi degli dèi e, ancora più avanti nel tempo, i mestieri, i luoghi d’origine o la residenza forniscono ulteriori elementi d’identificazione. Ma se è vero che l’uomo è un animale sociale, è altrettanto vero che è un animale molto curioso: il desiderio di conoscenza caratterizza già l’homo sapiens, col bisogno innato di viaggiare, di esplorare e di conoscere, che lo porta a contatto con gruppi diversi. Il fatto stesso di rendersi conto che esistano gli altri, conduce i nostri progenitori all’identificazione di se stessi come appartenenti ad un gruppo e rende perciò indispensabile la definizione del proprio gruppo con un nome comune che definisca l’appartenenza al gruppo stesso: è in ciò il germe del futuro cognome.

In generale, diciamo che il cognome può prendere molti riferimenti per identificarsi, dal nome del capofamiglia, “io sono uno dei figli di .”, al nome della località d’origine “io sono uno di quelli della valle.”, al tipo di mestiere svolto dal proprio gruppo, “io sono uno dei cacciatori.”… l’unico limite è la fantasia. Con l’ampliarsi del gruppo, con l’aumento del numero dei singoli gruppi familiari e con l’allargamento dei confini esplorati e delle genti nuove conosciute si sente l’esigenza di una struttura che consenta in modo univoco ed organizzato di identificare ogni singolo elemento umano della società.

In epoca storica, i Latini già avvertirono l’esigenza di identificarsi con un nome proprio e con l’attributo della “gens” (il clan, la tribù di appartenenza), secondo un’usanza comune peraltro ad altri popoli celtici (irlandesi, scozzesi). In seguito, in Età Repubblicana, i Romani sentirono il bisogno di aggiungere un elemento distintivo, che consentisse di identificare due diverse persone aventi lo stesso nomen ed appartenenti alla stessa gens e così introdussero il cognomen, ossia un soprannome che facesse riferimento a caratteristiche fisiche, al colore dei capelli, alla balbuzie, al candore della pelle, oppure a fatti che avevano caratterizzato quello specifico individuo o a nomi di popoli da lui vinti o a campagne militari effettuate o al luogo di provenienza e così via. Si pervenne così alla formulazione dei cosiddetti tria nomina (tre nomi): il praenomen (corrispondente al nostro nome), il nomen (il nome della gens, della famiglia o del clan, corrispondente al nostro cognome) ed il cognomen (il soprannome). In questo modo ogni civis Romanus poteva essere identificato e, in caso di omonimia, si poteva anche aggiungere un quarto ed un quinto nome a completarne il praenomen.

Nel mondo latino dunque l’identificativo della persona era il cognomen, mentre il nomen identificava la gens di appartenenza, cioè la famiglia. Così, ad esempio, in “Marco Tullio Cicerone”, Marco era il praenomen, Tullio il nome gentilizio, cioè l’identificatore della familia di appartenenza, e Cicerone era il cognomen, cioè l’identificativo della persona all’interno della sua gens per una particolare caratteristica fisica (un porro sul naso a forma di cece). Invece, in “Publio Cornelio Scipione Africano”, troviamo l’aggiunta di un quarto elemento alla triade canonica, per evitare omonimie in famiglia. A voler scendere su un piano etimologico, gens è qualcosa di più che famiglia come la intendiamo noi, è piuttosto il clan, ossia l’insieme di tutti quanti discendono da una stessa origine comune (in greco antico diremmo ghenos).

Si può notare l’affinità tra il vocabolo latino gens e genus (stirpe, genere), génitus (generato), che fanno capire come alla base ci sia il concetto di “generare, dare origine”; il ghènos greco (da cui ghènesis, ossia genesi = origine) aveva il significato di “elemento primordiale, capostipite”, significato che ha mantenuto nel vocabolo dell’italiano moderno “gene” (anche se stranamente in italiano c’è arrivato dal germanico “gen” con significato analogo). Da quanto detto si comprende anche il significato del termine “genealogia”, quale studio (logìa) delle origini (genè), ossia studio delle origini delle genti. Va da sé che tale discorso valeva essenzialmente per i patrizi e per di più si applicava solo ai Romani maschi: le donne portavano infatti unicamente il nome gentilizio, per cui tutte le figlie di Caio Giulio Cesare erano semplicemente Iulia (aggiungendo magari maior o minor, nel caso in cui ce ne fosse più di una).

Vari secoli dopo, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., le influenze barbariche portarono ad un quasi completo abbandono della struttura cognominale latina, che rimase in uso presso pochissime famiglie patrizie. Si tornò così all’uso di un nome unico (detto supernomen o signum), con le caratteristiche di non essere ereditato e di avere un significato immediatamente comprensibile (ad esempio il nome imperiale Augustus che significa “consacrato dagli àuguri” o “favorito da buoni auspici”). Col tempo e con l’affermarsi del Medioevo, tale nome unico finì poi per esser ispirato sempre più al nome dei santi più noti della religione cristiana.

Dopo il 1000, le influenze barbariche sull’onomastica si fecero più massicce e, almeno per quanto concerne le famiglie più abbienti, si cominciò ad affiancare al nome di battesimo quello del padre o della madre in caso genitivo (con o senza le preposizioni  de/di). Presso le popolazioni barbare l’identificativo per eccellenza era infatti il nome del padre o della madre con un suffisso patronimico o matronimico: si pensi ai britannici terminanti per -son come Johnson, alle popolazioni nordiche con i vari cognomi terminanti per –s(s)en o –s(s)on come Johanssen o Petterson o quelli dei popoli slavi terminanti per -vic, -ig o -cic come Ivancic o Petrovic o per i popoli di ceppo russo terminanti per -ov a volte scritto -off come Stefanov, tutti suffissi che stanno per “figlio di”).

In effetti già presso gli antichi Greci, le persone venivano identificate dal nome proprio, da quello del padre e, a volte, dalla località d’origine, in quanto retaggio degli antenati indoeuropei trasmessa in seguito ai popoli slavi, germanici e nordici in genere (a tal proposito, illuminante può essere l’esempio del nome “Dante Alighieri”, in cui il cognome è un genitivo, in quanto significa “figlio di Alighiero”, mentre a sua volta il padre era detto “Alighiero de/de li Alighieri”).

A seguito della grande crescita demografica avvenuta in Europa tra X e XI secolo e coll’affacciarsi dell’Età Comunale, divenne sempre più complicato distinguere un individuo da un altro usando il solo nome personale. Tra le principali difficoltà nell’individuare correttamente una persona e registrarla, va essere considerata la condizione, tipica dell’epoca medievale, di chi fuggiva dallo status di servo rurale per vivere in città: ci si registrava nelle corporazioni municipali fornendo il nome e la provenienza (Montanaro, Dal Bosco, ecc.) oppure un pregio o difetto fisico (Gobbo, Rosso, Mancino, ecc.) oppure un mestiere (Sella, Ferraro, Marangon, ecc.) oppure l’indicazione del padre e della madre (es. Petrus Leonis equivaleva a “Pietro figlio di Leone”, che in seguito divenne Pierleone o Pier di Leone) e, dopo un anno solare, il feudatario perdeva il diritto di riportare il fuggitivo nel feudo di provenienza.

Si rese così nuovamente necessario identificare tutti gli individui appartenenti alla medesima discendenza con un secondo nome, un nome aggiuntivo. Nacque, in tal modo, il cognome moderno, che poteva essere originato da una caratteristica peculiare delle persone, come ad esempio la loro occupazione, il luogo d’origine, lo stato sociale o semplicemente il nome dei genitori: Rossi (il cognome più diffuso in Italia) potrebbe far riferimento al colorito della carnagione o dei capelli di qualche antenato; Fiorentini, probabilmente, la provenienza originaria da Firenze, Di Francesco potrebbe indicare “figlio di Francesco”. Esistono cognomi composti da più parole; il cognome Coladonato, ad esempio potrebbe indicare “colui che ha donato”.

I primi casi di cognomi appaiono in Italia fin dalla fine del IX secolo come prerogativa distintiva di una classe privilegiata, poi nel corso del Medioevo il fenomeno si estende a macchia d’olio fino ad arrivare, in Età Rinascimentale, ad essere abbastanza diffuso. Più in dettaglio, il cognome si affermò precocemente a Venezia, per la sua più antica struttura democratica e intensità di attività economiche, specialmente marittime e commerciali, quindi a Genova e nelle altre Repubbliche Marinare e nei Comuni, infine nei centri minori e nelle campagne, o comunque negli Stati in cui le nuove istituzioni più tardavano a consolidarsi. In un primo tempo, non fu ancora una caratteristica ereditaria, ma piuttosto un carattere distintivo della persona: infatti restava prerogativa dei nobili l’uso di trasferire ai propri figli primogeniti l’identificativo del casato, così da perpetuarlo nel tempo.

Successivamente, tra il XIII e il XIV secolo, l’uso si estese anche agli strati sociali più modesti. Il  Concilio di Trento del 1564 sancì l’obbligo per i parroci di gestire diversi registri con nome e cognome, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei. Cominciarono così ad essere redatti, da parte di ogni parrocchia, chi prima chi dopo i seguenti volumi: Libri Renatorum (ossia dei battezzati), Libri Confirmatorum (dei cresimati), Libri Matrimoniorum (dei matrimoni), Libri Mortuorum (dei morti) e Status Animarum (resoconto annuale dei fuochi di un paese, divisi per rioni), ancor oggi fonte imprescindibile e preziosa per qualsivoglia ricerca genealogica. Durante il ‘600 e per tutto il ‘700 l’uso dei cognomi diventò un obbligo e, con la nascita dello Stato Civile e dell’Anagrafe  durante il Decennio Napoleonico, assunse quelle caratteristiche rimaste sostanzialmente inalterate fino ad oggi.

Volendo procedere ad una classificazione dei cognomi italiani secondo un quadro tipologico,  può essere utile procedere alla seguente schematizzazione di carattere generale:

1° tipo: costituito dai cognomi formati direttamente da un nome personale, all’origine il nome della persona da cui, per motivi vari, si cominciò a denominare anche il gruppo familiare: così Martino, o più spesso, Martini come plurale di valore collettivo, “la famiglia, la casata, quelli di Martino”.

2° tipo: costituito da quei cognomi aventi alla base, con lo stesso processo, un originario soprannome: così da “il Rosso”, Rosso con il regionale Russo e nel plurale collettivo Rossi.

3° tipo: comprende i cognomi formati o derivati da determinativi epitetici, ossia da determinazioni aggiuntive che avevano e a volte hanno ancora la funzione di identificare ulteriormente un individuo, oltre che con il nome personale, con l’indicazione di una sua particolare condizione: è il tipo più complesso, e richiede quindi un’articolazione, secondo la natura della condizione, in almeno tre sottotipi.

Il primo è costituito dai patronimici e dai più rari matronimici, ossia dall’indicazione del padre e della madre espressa attraverso il loro nome personale o soprannome o appellativo: il rapporto “figlio di” lo troviamo reso col di/de, come in Di Giovanni, De Luca, D’Angelo, Del Rosso, Della Vedova; con l’articolo determinativo lo o la (forma propria del Sud), come Lo Russo, La Rosa; con l’abbreviazione fi’ di figlio (forma ormai rarissima e propria della Toscana), come Firidolfi, Fittipaldi, cioè “figlio di Rodolfo, di Tipaldo (Tebaldo)”; infine con il semplice nome personale o soprannome, nei patronimici per lo più terminante in –i (continuazione della più diffusa desinenza in –i del genitivo del latino medievale, soprattutto cancelleresco e notarile, cioè “figlio di…”), come Gatto o Gatti.

Il secondo sottotipo ha alla base l’indicazione del paese, della città o del centro abitato, della località di residenza, di origine o di provenienza, della persona o del gruppo familiare, espressa sia con un aggettivo etnico, come Albanese, Spagnolo, Lombardi, Napolitano o Montanari, Valligiano; sia con il toponimo introdotto dalle preposizioni di e da o, nel Sud, determinato dall’articolo lo e la, come in Di Napoli e Da Ponte, Del Monte o Dalla Costa, Lo Castro e La Rocca; sia con il semplice toponimo, come Alemagna e Francia, Milani e Napoli, Costa, Monti, Ponte, Riva, Valle.

Il terzo sottotipo ha alla base l’indicazione del mestiere o della professione, della carica e dell’ufficio, e di altre particolari condizioni e relazioni sociali e familiari della persona da cui viene denominato il gruppo come Barbieri, Ferrari o Fabbri, Santi, Cavalieri, Giudici e Podestà, Abate e Monaco, Preti, Barba (cioè “zio” o “pastore valdese”) e Padrino o Santoli. Determinazioni, queste, che possono anche essere alla base di un patronimico o di un matronimico, come Del Giudice e Della Monica, Lo Console e La Barbera, e quindi rientrare nel prim sottotipo.

Sussiste infine un gruppo di cognomi che hanno in comune la sola caratteristica di essere stati usati per denominare una particolare categoria di persone, ma che non hanno uno specifico etimo onomastico, anzi partecipano ora all’uno ora all’altro dei tre tipi fondamentali, e non possono quindi costituire un gruppo a sé. Si tratta di quei cognomi imposti nel passato – ma poi divenuti ereditari e sopravvissuti fino a noi – dai parroci, dai responsabili di orfanotrofi o brefotrofi, dagli stessi ufficiali dello stato civile, a bambini abbandonati e trovatelli, figli di ignoti. Spesso essi sono formati da elementi lessicali o espressioni, la cui semantica linguistica è trasparente, che dichiaravano questa condizione di nascita sia in modo esplicito, diretto (come Esposito, Esposto o Esposti o Degli Esposti e Proietti, Trovati; Ignoti e Incerti o D’Ignoti e D’Incerti; Innocenti o Degli Innocenti; Nocenti e Nocentini; Diolosà) o indiretto, per lo più attraverso la denominazione dell’orfanotrofio o altro istituto assistenziale (come Casadei o Casadidio, Casadio; Della Pietà e in parte Colombo), sia in modo implicito, esprimendo l’affidamento a Dio o alla buona sorte del bambino privo della protezione e delle cure dei genitori (come Diotaiuti e Taiti, Diotallevi e Allevi, Sperindio e in parte Ventura e Venturini).

In conclusione, per quanto non esista una vera e propria statistica riguardante l’origine dei vari cognomi, si può stimare che in Italia le forme cognominali reali – escluse cioè quelle isolate o rarissime, per lo più errori di denuncia e di trascrizione anagrafica o varianti formali del tutto casuali – siano circa 130.000. Il 1° tipo rappresenta il 40% delle forme e corrisponde al 32% della popolazione; il 2° tipo il 19% delle forme ma il 31% della popolazione, ed è quindi il meno numeroso rispetto al repertorio dei cognomi ma con forme e gruppi di altissima frequenza (si pensi, in ordine decrescente ai gruppi Rossi, Bianchi, Ricci, Mancini, Bruno, Galli, Gatti, Grassi, Negri, Mori, Biondi); il 3° tipo rappresenta il 41% delle forme e il 37% della popolazione, ed ha quindi il più alto numero di forme, ma con una frequenza media inferiore a quella del 2° tipo.

Seguendo invece un diverso parametro di classificazione, si stima che il 35% derivi da nomi propri del padre o del capostipite, un altro 35% abbia relazione con la toponomastica (cioè faccia riferimento a nomi di paesi o località o zone), un 15% sia relativo a caratteristiche fisiche del capostipite, un 10% derivi dalla professione o dal mestiere o dall’occupazione o dalla carica, un 3% sia di derivazione straniera recente ed un 2% sia un nome augurale che la carità cristiana riservava ai trovatelli.

Vincenzo Maria Pinto

Bibliografia essenziale:
A. L. Prosdocimi (a cura di), Lingue e dialetti dell’Italia antica, Roma, Biblioteca di Storia Patria, 1978.
AA.VV., L’opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi, Firenze, Accademia della Crusca, 1979.
E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, A. Mondadori, 1978.
E. De Felice, I cognomi italiani. Rilevamenti quantitativi dagli elenchi telefonici: informazioni socioeconomiche e culturali, onomastiche e linguistiche, Bologna, Il Mulino, 1980.
R. Lazzeroni (a cura di), Linguistica storica, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987 e rist.